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mercoledì 24 dicembre 2008

Buon Natale!!!

Il primo Natale di Eugenia Takako Bosio


PRELUDIO D'ORGANO

IN SAN LUCA


organo “Giuseppe Rotelli” (1901)

mercoledì 24 dicembre 23,30


Puer natus est


PROGRAMMA



César Franck (1822-1890) Verset pour le Kyrie de la Messe de Noël (da L’Organiste II)


Marcel Dupré (1886-1971) Wachet auf ruft uns die Stimme op. 28, n. LXXII


Jean Langlais (1907-1991) Noël Breton (da 8 Chants de Bretagne)


Marcel Dupré In dulci jubilo op. 28, n. XLI


Jeanne Demessieux (1921-1968) Rorate coeli op. 8, n. I


***


DOPO LA MESSA


César Franck Grand Choeur in Do (da L’Organiste II)





Michele Bosio,  organo

domenica 14 dicembre 2008

VINCENZO ANTONIO PETRALI «IL PRINCIPE DEGLI ORGANISTI ITALIANI»







Figlio d’arte, Vincenzo Antonio Petrali nacque a Crema il 22 gennaio 1830 (non del 1832, come erroneamente riportato in numerose voci biografiche). Dopo aver ricevuto i primi rudimenti musicali dal padre Giuliano, fu affidato alla sapiente guida di un altro grande musicista cremasco, Stefano Pavesi (1779-1850), che guidò il giovane attraverso il rigore e la disciplina del contrappunto e della composizione musicale. Entrò poi al Regio Conservatorio di Milano, dove poté perfezionarsi con Antonio Angeleri (1801-1880), docente di pianoforte dal 1826 al 1871, ed affinare le proprie cognizioni nell’arte della composizione con Placido Mandanici (1798-1852). Nel 1847 concluse il suo iter di studi accademici.

Petrali possedeva straordinarie doti musicali, tanto da poter passare con disinvoltura dal violino al violoncello, al contrabbasso, e conseguentemente poter accettare scritture teatrali per suonare in orchestra ciascuno di questi strumenti (anche l’assidua frequentazione con l’illustre cugino Giovanni Bottesini, più vecchio di lui di nove anni, dovette contribuire non poco alla formazione del giovane musicista). Non solo, riscosse ben presto successi sia come compositore, direttore di coro, orchestra e banda; ma il campo in cui eccelse sopra tutti fu quello dell’improvvisazione organistica. Persino un affermato ed acclamato compositore, come il cremonese Ruggero Manna (1808-1864), rimase davvero impressionato dalle improvvisazioni che il diciannovenne Vincenzo produsse all’organo della Cattedrale di Cremona nel 1849 in occasione del concorso di organista titolare della Cattedrale; concorso che in Nostro stravinse.


Nel panorama musicale italiano d’allora, dominato dalla musica di grandi operisti del calibro di Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini e Giuseppe Verdi, per poter farsi notare bisognava cimentarsi nel genere melodrammatico. Così che Vincenzo, poco più che ventenne, compose il suo primo melodramma Manfredi di Napoli, scritto per il Teatro Santa Radegonda in Milano. La censura austriaca proibì l’opera, il cui libretto era stato ricavato dall’omonimo romanzo del “mazziniano” Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), ed «in un momento di sdegno del Maestro» lo spartito finì sul fuoco. Il successo arrivò con la sua seconda opera Giorgio di Bary, che andò in scena al Teatro Sociale di Bergamo durante il carnevale 1853-1854 (più precisamente la sera del 10 febbraio 1854), poi crebbe di popolarità passando per Crema, Brescia ed in altri teatri italiani.



Nel 1853, il Petrali era divenuto collaudatore ufficiale dei celebri organari Serassi, la cui fabbrica aveva sede a Bergamo nel palazzo Stampa, ma solamente nel 1868 egli si trasferì in quella città - che divenne la sua patria adottiva - ed ivi rimase sino al 1882.


A questo punto, pare indispensabile ricordare che i fratelli Serassi furono presenti a Castelleone con ben quattro strumenti: per la parrocchiale dei Santi Giacomo e Filippo (1797), per il Santuario della Beata Vergine della Misericordia (1836), e per le chiese di San Rocco (1788) e della Santissima Trinità (1792). Ed è proprio in questo Santuario che a tutt'oggi è sopravvissuto l'unico strumento dei Serassi edificato per Castelleone. La scelta di eseguire su questo strumento la Messa Solenne in Fa di Petrali, trova quindi una giustificazione storica del tutto pertinente.


La musica di stampo operistico trovava ampio spazio anche durante la celebrazione dei Sacri Riti - in chiesa - con le improvvisazioni organistiche del Nostro, le quali traevano linfa vitale dalle romanze, dai ballabili o dalle marce di un Giuseppe Verdi, piuttosto che di un Giacomo Meyerbeer. La maggior parte della sua produzione organistica, almeno sino agli anni Settanta dell’Ottocento, si spinse in questa direzione. La tipologia di strumenti costruiti dalla ditta Serassi di Bergamo trovò in Petrali un sorprendente mezzo di diffusione e promozione, così come la sua arte improvvisativa trovò la via del successo nel modello di organo serassiano. Strumento in cui accanto al classico Ripieno trovano posto numerosissimi strumenti da concerto (ad anima e ad ancia), nonché svariati effetti rumoristici e coloristici, come la Banda turca, il rollante, i timpani, i campanelli e le campane.


Ma, il Petrali seppe perfettamente destreggiarsi anche con altri rinomati organari italiani, quali Luigi Lingiardi di Pavia (che non sopportava il mutevole carattere di Petrali), Pacifico Inzoli di Crema; soprattutto Giacomo Locatelli, discepolo prediletto dei Serassi.


Ricordiamo che nella Parrocchiale di Castelleone prima dell'attuale organo edificato nel 1925 da Giovanni Tamburini di Crema, vi furono diversi strumenti. Dopo il già citato Serassi del 1797, Pacifico Inzoli di Crema compì un restauro nel 1868 - collaudato da Giulio Corbari straordinario musicista formatosi al Conservatorio di Milano, che operò a Castelleone e che morì prematuramente nel 1877, all'eta di 33 anni (artista dimenticato ed in attesa di essere riscoperto e studiato) - ma, nel 1875 Luigi Lingiardi costruì un grandioso organo-orchestra (un particolare tipo di strumento di sua invenzione) che il 25 ottobre venne collaudato proprio da Vincenzo Petrali e da Gaestano Zelioli organista del Santuario di Caravaggio.


Tra il 1856 ed il 1859, fu maestro di cappella del Duomo di Brescia ed in questo periodo compose anche la sua terza opera Anna di Valenza, che fu scritta per incarico dell’Impresa Rovaglia del Teatro Carcano di Milano, ma non venne mai rappresentata.

Tra il 1860 ed il 1872 fece ritorno al paese nativo, Crema, come maestro di cappella del Duomo e direttore della Banda cittadina; nel frattempo compose la sua quarta opera Maria de’ Griffi, che andò in scena nel 1864 al Teatro Riccardi di Bergamo.

Tra il 1872 ed il 1882, fu prima organista e poi maestro dell’insigne Cappella di Santa Maria Maggiore a Bergamo. Gli succedette Amilcare Ponchielli (1834-1886) che fu maestro di cappella dal 1882 al 1886, il quale rimase fortemente impressionato dall’arte improvvisativa del Maestro organista, lo definì: «grande e potente». Dal 1873, cominciò ad insegnare anche presso l’Istituto Musicale di Bergamo, ed in seguito ne divenne direttore.

Il 26 ottobre 1882 fu nominato docente di organo, armonia, pianoforte, contrappunto, composizione e strumentazione per banda presso il neonato Liceo Musicale Rossini di Pesaro, chiamato per chiara fama, dal direttore Carlo Pedrotti (1817-1893).

Il 24 novembre 1889, dopo breve malattia di natura epatica, il Nostro si spense prematuramente a Bergamo. Nonostante compose quattro opere, un oratorio (Debora, composto nel 1859 ed eseguito nel 1880), la musica per l’azione mimica l’Alloggio militare (composta nel 1878), quartetti per archi, sonate per violino e pianoforte, diversa musica per banda e molta musica sacra, egli sarà sempre ricordato come superbo ed ispirato improvvisatore all’organo.


La Chiesa che il Nostro aveva sempre servito arricchendo con grande musica la celebrazione dei sacri riti, purtroppo non gli rese i doverosi onori funebri, macchiandosi così di un gravissimo torto. Nel 1883 il Petrali, rimasto vedovo di Maria Ottolini di Crema, sposò in seconde nozze Carolina Cicognara di Bergamo con rito civile, poiché di religione protestante, ragion per cui alla sua morte i ministri del culto vietarono il funerale religioso ed impedirono la sua tumulazione nel cimitero di Bergamo accanto alle salme cristiane.





INTRODUZIONE ALLA MESSA SOLENNE IN FA MAGGIORE PER ORGANO SOLO DI VINCENZO ANTONIO PETRALI



All’incirca nell’ultimo ventennio del Diciannovesimo secolo si fece pressante il bisogno di una musica liturgica, non più di stampo romantico-melodrammatico, bensì d’autentica ispirazione sacra (canto gregoriano, polifonia classica). Incominciò ad attecchire in Italia la Riforma Ceciliana, che riformando la musica sacra riformò anche l’organo.

Poco alla volta gli strumenti con registri spezzati, pedaliera corta, ed effetti bandistici (come quelli realizzati dai Serassi e dai Lingiardi e collaudati dal Petrali) vennero sostituiti da organi dotati di almeno due tastiere, di pedaliera completa e di registri interi. Il Petrali seppe adattarsi ai tempi, tanto che nel 1886 fondò insieme a Giuseppe Arrigo (1838-1913) un mensile di musica religiosa intitolato «Arpa Sacra», pubblicato a Torino dagli editori Giudici e Strada, guardando così in favore del neonato Movimento Ceciliano.

La Messa Solenne in Fa maggiore venne pubblicata per l'appunto nel 1888 nella seconda annata di «Arpa Sacra», al contrario dell'altra Messa Solenne per organo, in Re maggiore, (pubblicata probabilmente intorno agli anni Cinquanta dell'Ottocento e più volte ristampata dall'editore Giovanni Martinenghi di Milano) - che costituisce un mirabile esempio di stile melodrammatico, in cui vengono sfruttate al massimo le potenzialità degli organi-banda, ricchi di molti registri da concerto ed effetti tipici dell'organico strumentale impiegato nella musica operistica di quel tempo - questa in Fa maggiore, invece, venne composta per organo a due tastiere con pedaliera di 27 note, in cui lo stile «legato» (severo, contrappuntistico) la fa da padrone.

Se volessimo cercare dei modelli a questa Messa, li troveremmo in compositori d'oltralpe classico-romantici, quali Haydn, Beethoven e Mendelssohn, piuttosto che in Donizetti o Bellini. Anche se l'adesione di Petrali ad uno stile più osservato, non gli impedì certo di liberare la sua copiosa vena melodica, tutta italiana. Un po' come successe all'ultimo Verdi, cioè quello dell'Otello e del Falstaff, che mettendosi in discussione rielaborò originalmente e genialmente modelli operistici d'oltralpe.

Nei Preludi, alla Messa e all'Epistola, troviamo un uso magistrale del contrappunto con episodi fugati dal carattere severo, mentre nell'Elevazione troviamo persino la rigida forma del canone. Ma, in alcuni versetti per il Gloria ritornano reminiscenze belcantistiche come ad esempio nel secondo versetto - un magnifico Andantino per flauto solista - , o nel quarto, in forma di breve romanza per clarinetto basso. Non mancano neppure veri e propri esempi sinfonici come la grande Sonata per l'Offertorio, oppure fedeli modelli bandistici come la Sonata finale, una energica marcia che sembra essere stata ridotta da un originale pezzo strumentato per banda.

Questa sera non ascolteremo tutta la Messa, bensì una selezione dei brani più caratteristici e che ben si adattano alla variegata tavolozza timbrica dell'organo del Santuario (purtroppo oggi non in ottima forma e bisognoso di un auspicabile intervento di straordinaria manutenzione, che lo riporti in condizioni ottimali), ascolteremo: Preludio alla Messa, Versetti per il Gloria (7, da eseguirsi in alternatim con il canto gregoriano, ma stasera presentati di fila), Elevazione e Sonata finale.


Ricordo, infine, che è in vendita la registrazione completa della Messa Solenne in Fa maggiore edita dalla casa discografica Bongiovanni di Bologna ed eseguita da Paolo Bottini all'organo Lingiardi (1865) della chiesa parrocchiale di Croce S. Spirito in Castelvetro Piacentino con gli interventi solistici del soprano Hiroko Miura.

sabato 15 novembre 2008

«Il Clavicembalo nel '700 della Serenissima Repubblica di Venezia»



Protagonista assoluto è il clavicembalista bresciano Michele Barchi che mediante i suoi strumenti (è proprio il caso di dirlo, perché oltre a suonarli, li ha pure costruiti) svela le connessioni musicali tra la sua città, la «Leonessa», e  la «Serenissima».

Il compositore salodiano Ferdinando Giuseppe Bertoni (1725-1813), fu allievo di Giovanni Battista Martini, divenne in seguito primo organista della Basilica di S. Marco a Venezia, direttore dell'Accademia filarmonica di Bologna, ed entrò in contatto diretto con il giovane Mozart e Johann Christian Bach. A Venezia ebbe molti allievi, tra i cui il nipote Ferdinando Gasparo Turrini (1745-1812/1829) e Giovanni Battista Grazioli (1746-1828), - anch'essi nati sulle rive del Garda - quest'ultimo, poi, divenne suo successore come organista della Basilica Marciana, quando il Maestro passò alla direzione della Cappella musicale.

Barchi propone ben sette composizioni dei sopraccitati compositori bresciani (2 Sonate del Bertoni e del Turrini e 3 del Grazioli), tutte Sonate dal chiaro idioma Galante, ampiamente proiettato verso il Classicismo, in perfetto «stile veneziano». Uno stile che ha avuto precedenti illustri in figure come Giovanni Benedetto Platti (1700-1762); Giovanni Battista Pescetti (1704-1766) Baldassare Galuppi (1706-1785), entrambi allievi di Antonio Lotti (1667-1740) ed apprezzati da Benedetto Marcello (1686-1739) ed impiegati a  S. Marco a Venezia (il primo come organista il secondo come maestro di Cappella).

Ed anche di questi autori Barchi propone una Sonata per ciascuno, ma non è finita qua, poteva mancare Vivaldi? Naturalmente no, e compare con il terzo Concerto da L'estro armonico nella trascrizione per tastiera di Johann Sebastian Bach (BWV978); non dimentichiamo poi che il padre di Antonio, Giovanni Battista Vivaldi, era di origini bresciane! Ed anche Benedetto Marcello passò gli ultimi anni della sua vita a Brescia.

Nella splendida cornice di Villa Bettoni a Bogliaco di Gargnano (Bs), Federico Savio ambienta il suo film, in cui accanto a preziosi dettagli pittorici degli strumenti a pizzico e della Villa, trovano posto raffinate e crepuscolari inquadrature paesaggistiche. 

Gli strumenti suonati in maniera molto precisa, pulita e brillante, con un controllo esemplare del tocco, sono tre: un clavicembalo italiano a due manuali (Michele Barchi, Ghedi, 1985); un clavicembalo italiano a un manuale (Michele Barchi, Emilio Lorenzoni, Corvine di Gambara, 1984) con la meccanica regolata in modo da rendere possibile in parte l'azione del tocco sulla dinamica sfruttando la maggiore distanza di movimento di pizzico del registro secondario; ed una spinetta italiana rettangolare (Michele Barchi, Ghedi, 1984).

Qualità video ed audio eccezionali ed un bonus in cui il Barchi presenta la possibilità di ottenere la dinamica sopra un particolare tipo di cembalo, copia di Gerolamo Zenti, riportato in un Inventario Mediceo del 1700. Libretto e sottotitoli in quattro lingue (italiano, inglese, francese e tedesco).

Un prodotto che davvero mancava nel panorama video-discografico legato al cembalo: non solamente i Bach, i Couperin o Frescobaldi, ma anche i cosiddetti «compositori minori», possono far risaltare le particolari sonorità di uno strumento, che come l'organo, non si è mai standardizzato (cambiando nella cronologia temporale non solo da nazione a nazione, ma anche da regione a regione), assecondando un repertorio assai variegato. 

mercoledì 12 novembre 2008

Video organistici (2)


Si tratta di un eccezionale documento di fondamentale importanza storica. Non solamente per la storia della musica per organo in senso stretto, ma per la storia della musica occidentale. Poiché, Marcel Dupré (1886-1971) fu un artista che con il suo operato non solo rivoluzionò la tecnica per organo del Novecento (fu allievo di Guilmant, Widor e Vierne, e fu a stretto contatto con personalità del calibro di Fauré e Saint-Saëns; solo per citarne alcuni), ma lasciò un'indelebile impronta nella musica del secolo scorso (nel 1914 vinse il Prix de Rome); basti pensare che tra i suoi innumerevoli allievi compare anche Olivier Messiaen (di cui quest'anno ricorre il 100° anniversario della nascita).

Il nome di Dupré è ricordato soprattutto per due aspetti intrinsecamente collegati: l'interpretazione delle opere di Bach e la sua rigorosa scuola di improvvisazione organistica. Nel 1920, infatti, fu il primo organista nella storia della musica ad eseguire in concerto, presso il Conservatorio di Parigi, l’opera integrale per organo di Bach. Egli faceva derivare il suo metodo da Charles-Marie Widor (1844-1937), che a sua volta lo ereditò da Nicolas-Jacques Lemmens (1823-1881), il quale fu depositario del verbo bachiano in virtù degli insegnamenti ricevuti «di prima mano» da Adolf Hesse (1809-1863) ed alla conoscenza degli studi musicologici di Johann Nikolaus Forkel (1749-1818).  Fondamentale precetto della scuola di Dupré era quello della totale uguaglianza tra la composizione di un brano e l'improvvisazione estemporanea di esso. Ovviamente per essere in grado di  improvvisare fughe  in stile severo (anche a 6 voci, come spesso egli faceva), bisognava avere una perfetta padronanza sia della tecnica organistica, sia della composizione musicale, oltre ad una lucidità impressionante . 

Un giorno il grande musicologo ed organista Luigi Ferdinando Tagliavini (anch'egli, durante gli anni cinquanta, allievo di Dupré) mi disse che dal suo antico Maestro aveva imparato soprattutto il significato della parola «rigore». Ebbene, ho capito che cosa egli intendesse veramente, solamente dopo l'attenta visione di questi filmati in cui Duprè suona, soprattutto improvvisa, in tre periodi differenti (nel 1955, nel 1965 e nel 1967) della sua lunghissima carriera al grandioso organo di cui fu  titolare (Cavaillé-Coll, 1863, della chiesa parigina di Saint-Sulpice) ed al suo organo presso la sua villa di Meudon (entrambi un tempo appartenuti al suo maestro Guilmant). 

Nel filmato risalente al 1955, Dupré suona il corale Wachet auf di Bach, poi un proprio corale In dulci Jubilo (anche se non perfettamente uguale a quello pubblicato nell'op. 28), il finale dal I° Concento per organo di Händel ed improvvisa sopra un canto natalizio della Bretagna. L'aspetto che  più colpisce di Dupré, a parte la perfetta tenuta ritmica ed il fraseggio impeccabile (purtroppo la sua tecnica trascendentale impareggiabile, incominciava in quegli anni a venire ostacolata dall'artrite deformante), è la totale assenza di scarto tra i brani d'autore e l'improvvisazione (imbrigliata in una struttura formalmente perfetta dall'afflato sinfonico - tema e variazioni con fuga finale - ed una tenuta ritmica metronomica). Ma, le improvvisazioni che lasciano letteralmente a bocca aperta sono: una doppia Fuga a 4 voci su Regina Coeli (1965), un Preludio e  doppia Fuga  a 4 voci su un tema di André Fleury (in stile severo) ed un Poema sinfonico sul dipinto di Delacroix Il combattimento di Giacobbe con l'Angelo custodito in Saint-Sulpice (1969). In virtuosismo trascendentale che aveva accompagnato gli anni giovanili di Dupré, facendolo conoscere in tutto il mondo (soprattutto grazie alla pubblicazione dei Trois Préludes et Fugues op. 36), nella maturità lascia il posto ad un altro tipo di virtuosismo, che potremmo definire cerebrale. Nell'improvvisazione senile ascoltiamo soprattutto il compositore, l'autore, oltre all'organista. La perfetta padronanza dell'arte musicale e l'assoluto controllo tra creazione ed esecuzione estemporanea sono il frutto di un lavoro quotidiano iniziato da bambino e mai interrotto, che alla bellezza di 80 anni, in virtù anche di una straordinaria lucidità, ritraggono un artista a tutto tondo figlio della migliore tradizione romantica (purtroppo oggi non più esistente).

Il DVD è reperibile solo ordinandolo presso l'Association des Amis de l'Art de Marcel Dupré di Parigi (http://www.marceldupre.com/).

domenica 2 novembre 2008

Video organistici (1)


Vedendo ed ascoltando il dvd di Enrico Viccardi si ha subito la percezione della perfetta sintonia tra artista e regista. Il modo di suonare di Viccardi rivela una straordinaria maturità espressiva, assolutamente evidenziata dalle riprese di Federico Savio. Si avverte una tensione palpabile che scaturisce sin dal primo accordo della granitica Fantasia e Fuga in sol BWV 542 e che man mano cresce, attraverso la vorticosa Triosonata n. 2 in do BWV 526, sino a raggiungere l’apice del pathos (anche grazie alla quasi totale assenza di tagli in fase di montaggio) nel severo Preludio e Fuga in mi BWV 548, che Spitta romanticamente definiva come «una sinfonia in due movimenti». 


Il presente dvd non solo riveste un alto rilievo dal punto di vista estetico, ma soprattutto dal punto di vista didattico. Naturalmente per la scelta degli strumenti (due organi, uno grande  - «Mathis» della chiesa abbaziale di Muri-Gries, Bolzano - per l’esecuzione e uno piccolo - «Mascioni» della chiesa di S. Abbondio in Cremona - per la presentazione, entrambi «alla tedesca», ma che si trovano o sono stati costruiti in Italia); per l’eccezionale perizia di tocco funzionale ad un fraseggio impeccabile parimenti scaturiti da una musicalità tutta italiana, quella di Enrico Viccardi, ma che ha «sciacquato i panni» alla fonte del grande mentore Michael Radulescu (il tutto ricalcato puntualmente dalla analitica regia di Savio). 

Infine, per gli esempi musicali espletati dall’interprete prima dell’esecuzione dei brani, così  da «prendere per mano» l’ascoltatore e guidarlo attraverso i simboli, le proporzioni e le forme dell’universalità musicale di Johann Sebastian Bach.  

 

domenica 26 ottobre 2008

L'organico vocale da impiegare per l'esecuzione della musica corale di Johann Sebastian Bach: a parti reali o con raddoppi? (4)



Wolff puntualizza, infine, che è impossibile sapere con precisione quante forze Bach avesse a disposizione per l'esecuzione delle sue opere corali (ad esempio la Messa in si minore). Rifkin asserisce che l'esistenza delle sole parti staccate dimostrerebbe un'esecuzione solistica della musica corale, poiché i «ripienisti» non saprebbero quando entrare; ed effettivamente le parti in «ripieno» non sono segnate nella parte dei «soli», prova anche questa che ciascun cantore leggeva da una propria parte. Ma, è verosimile che Bach avesse in mente di usare i solisti (naturalmente oltre che nelle arie e nei recitativi) specialmente nell'esposizione delle sezioni fugate di un coro (senza strumenti obbligati); i «ripienisti» si sarebbero aggiunti nelle sezioni a piena massa.


La questione rimane, e penso rimarrà, ancora aperta; ma le argomentazioni di Rifkin, condivisibili oppure no, hanno il pregio di basarsi sull'analisi sistematica testimoni musicali originali. 


Altro punto in favore di Rifkin è che, dopo aver condotto un serio lavoro filologico ed aver prodotto un'edizione critica dettagliata (come, appunto, quella della Messa in si minore) egli non pretende di “catechizzare” l'esecutore circa il numero dei cantanti, l'organico strumentale, il tipo di strumenti, l'impostazione della voce e quant'altro. La sua sola pretesa è quella di aver fornito un testo musicale il più possibile corretto, il lavoro filologico riguarda solo il testo (la sua genesi, la sua storia sino ad arrivare alla versione d'ultima mano, d'autore); l'esecutore è liberissimo di fare ciò che vuole, purché sia consapevole da dove stia leggendo e cosa stia facendo.


E' assolutamente vero che certi problemi di natura esecutiva si risolvevano, e si risolvono tuttora, in sede pratica. Vale a dire: il possibile sostegno di una parte del canto con il raddoppio di essa da parte dell'organo (magari, col pedale, si poteva sostenere la parte dei bassi; poiché Bach utilizzava l'organo da chiesa, non certo quello positivo impiegato nei concerti e nelle registrazioni discografiche di oggi). Lo squilibrio sonoro tra le trombe e gli archi; errori assolutamente palesi riportati nelle parti staccate; abbassamento o innalzamento del diapason; trasporti del continuo o di altri strumenti; etc. etc.


Ma, l'indagine filologica si basa sulla realtà (aggiungerei sulla verità) del testo musicale e basta; la prassi esecutiva, che è ausiliaria al testo, lo completa con l'atto sonoro vero e proprio, pretenziosamente "storico" oppure no.


[FINE]

domenica 19 ottobre 2008

L'organico vocale da impiegare per l'esecuzione della musica corale di Johann Sebastian Bach: a parti reali o con raddoppi? (3)



All'idea di Rifkin, dapprima appoggiata solo da pochi, oggi si associano illustri nomi tra cui il musicologo John Butt (concorde con Rifkin nel ritenere che il numero dei cantori citato nell'«Entwurf» si riferisce soprattutto all'esecuzione dei mottetti composti dai predecessori di Bach, e nella maggior parte a 8 voci e non a 4 come le Cantate), nonché i direttori Paul Mc Creesh  (che ha recentemente inciso in disco una versione della Passione secondo Matteo totalmente a parti reali) e Sigiswald Kuijken, il quale sta affrontando la    registrazione delle Cantate di Bach, anch'esse impostate a parti reali secondo la tesi di Rifkin.


Naturalmente altri specialisti, altrettanto illustri, concordano invece con l'interpretazione di Schering e Wolff.


Ad esempio le esecuzioni in disco di musica corale bachiana realizzate negli anni Ottanta del secolo scorso da John Eliot Gardiner si rifanno all'idea di utilizzare non più di 4/5 voci per ciascun registro, ivi compreso il solista. Idea sostenuta anche in questi anni, ampiamente riscontrabile dalla registrazione delle Cantate di Bach realizzate nel corso del suo «Pellegrinaggio bachiano».

Anche la registrazione di tutte le Cantate di Bach nella versione di Ton Koopman (intrapresa a metà degli anni Novanta ed attualmente in via di completamento, accompagnata da due volumi ricchi di saggi musicologici sulle Cantate di Bach da periodo di Arnstadt a quello di Lipsia) si basa sull'impiego di un coro con 4 cantori per registro ed un'orchestra ad archi, pressoché a parti reali (più, naturalmente, gli strumenti obbligati).

Koopman più di tutti si è mostrato in contrasto con Rifkin. Egli è  fortemente convinto che la musica di Bach non "funzionerebbe" se non con l'ausilio di un coro di 12/20 elementi, poiché lo status degli allievi della Scuola di San Tommaso era quello di dilettanti (seppur bravi e dotati), non di professionisti. Una esecuzione a parti reali, secondo Koopman, ignorerebbe tale status ed è sconsigliabile, specialmente per l'esecuzione di composizioni come la Messa in si minore.

A ciò aggiunge anche che è storicamente documentato da fonti iconografiche che più di una persona potesse cantare o suonare su una stessa parte (si veda anche l'incisione del Musikalisches Lexikon). Anche le parti di fagotto 1° e 2° scritte simultaneamente su una stessa parte (autografo Messa in si di Dresda, 1733) dimostrerebbero che più strumenti [cantori] potevano leggere da una stessa parte. Per di più, l'esistenza di sole parti singole, non escluderebbe a priori lo smarrimento di altre copie per altri cantori e strumentisti.

Ed è proprio con Koopman che, sia Rifkin sia Parrot, sono entrati in polemica rispondendo alle sue asserzioni con articoli dettagliati pubblicati negli anni Novanta dalla rivista «Early Music». In effetti, le argomentazioni di Koopman appaiono piuttosto generiche rispetto all'indagine filologia condotta da Rifkin sui testimoni originali bachiani (non a caso quest'ultimo ha pubblicato saggi esemplari anche nel «Bach-Jahrbuch»).


[Continua]

domenica 12 ottobre 2008

L'organico vocale da impiegare per l'esecuzione della musica corale di Johann Sebastian Bach: a parti reali o con raddoppi? (2)


      

In questo memorandum, scritto da Bach in reazione delle lamentele espresse sul suo operato, si può leggere circa il numero dei cantori (ma anche degli strumentisti) e la preparazione che essi avrebbero dovuto avere per l'esecuzione della "vecchia" e "nuova" musica presso le quattro chiese di Lipsia. 

Bach dice di avere a disposizioni 55 allievi della Scuola di San Tommaso dei quali 17 non idonei all'esecuzione di musica corale, 20 da perfezionarsi e 17 idonei. 

Per una ben regolata attività musicale occorrerebbero però da 4 a 8 «concertisti» (ovvero solisti per i quattro registri principali: SCTB) ed 8 «ripienisti» (ovvero 2 rinforzi per ciascun registro). 

Ciascuno dei 4 cori dovrebbe, quindi, essere composto da 12 cantori (3 per voce), meglio ancora 16 (4 per voce). 

Da qui l'idea di eseguire la musica corale di Bach con 3/4 persone per registro vocale, ivi compreso il solista per le arie ed i recitativi. Ipotesi abbracciata sia da Arnold Schering (in tempi passati) sia da Wolff (in tempi recenti), cioè 3 cantori per ciascun leggio (parte singola). 


Secondo Wolff, inoltre, l'«Entwurf» avrebbe valore soprattutto per il numero degli strumentisti professionisti richiesti da Bach, almeno 18/20 secondo le esigenze esecutive di musica antica e moderna, nonché di diversi stili e scuole. Tali professionisti, regolarmente stipendiati dal Municipio, avrebbero garantito la sicurezza di una musica ben suonata e preparata. 

Per i cantori, Bach non poteva fare altrimenti che contare sugli allievi della Scuola di San Tommaso, ma per gli strumentisti la questione era diversa. Era indubbiamente meglio lavorare con musicisti professionisti, piuttosto che con sostituti, rimpiazzi od allievi mestieranti (come, invece, era costretto a lavorare Bach presso le chiese di Lipsia). 


Rifkin risponde a coloro i quali citano l'«Entwurf» come fonte incontrovertibile per il rifiuto di una musica corale eseguita a parti reali, spiegando che tale documento secondo la terminologia dell'epoca non si riferirebbe al numero effettivo dei cantori e degli strumentisti per l'esecuzione della musica liturgica di Bach, bensì ad un numero complessivo di forze (un pool, una squadra) da cui il Kantor avrebbe potuto estrarre - a seconda delle esigenze musicali contingenti - tanto i cantori quanto gli strumentisti (soprattutto in considerazione delle possibili, e frequenti, defezioni sia degli uni sia degli altri, causate dalle malattie stagionali).

Tale interpretazione dell'«Entwurf» e l'esistenza di singole parti staccate (per cantori e strumentisti) delle opere corali scritte da Bach a Lipsia (soprattutto le Cantate) sono sostanzialmente i due pilastri su cui si basa la tesi di Rifkin: ogni componente dell'organico vocale-strumentale diretto dal Kantor leggeva da una propria parte e non condivideva, quindi, il leggio con nessuno.

[Continua]

mercoledì 8 ottobre 2008

L'organico vocale da impiegare per l'esecuzione della musica corale di Johann Sebastian Bach: a parti reali o con raddoppi? (1)


       All'inizio degli anni Ottanta del Novecento lo studioso americano Joshua Rifkin portò all'attenzione degli “addetti ai lavori” una propria rivoluzionaria testi riguardante l'esecuzione della musica corale di Johann Sebastian Bach.

Dopo un meticoloso studio compiuto sulle parti autografe utilizzate dagli strumentisti e dai cantori diretti da Bach a Lipsia, Rifkin giunse alla conclusione che il Kantor scrisse le sue Cantate (ma anche la Messa in si minore e la Passione secondo Matteo) non per coro, bensì per solisti.

L'idea di un'esecuzione “a parti reali” della musica per coro di Bach, attirò subito le perplessità di alcuni esperti in materia, come Christoph Wolff.

Rifkin, reduce da un minuzioso studio sui testimoni musicali della Messa in si minore, finalizzato alla registrazione discografica che nel 1981 consegnò ai microfoni dell'etichetta Nonesuch (e che solamente nel 2006 consegnò alla stampa, licenziando una corposa edizione critica della Messa per Breitkopf und Härtel) era ed è tuttora convinto che Bach utilizzasse solamente un cantore solista per registro vocale. 

Ciò lo ha potuto evincere dall'analisi delle parti originali per l'esecuzione di Dresda (1733) recanti in calce l'indicazione «soli»; del tutto assenti sono invece le indicazioni delle parti in «ripieno». 

I «ripienisti», la cui esistenza è suffragata da importanti fonti trattatistiche coeve, come il Musikalisches Lexikon di Johann Gottfried Walther (cugino di Bach), per Rifkin cantavano quasi esclusivamente nei corali conclusivi delle Cantate sacre.

La principale obiezione sollevata nei confronti della teoria di Rifkin (ampiamente abbracciata sin dall'inizio anche da Andrew Parrot, che nel 2004 ha pubblicato un volume dal titolo The essential Bach choir, in cui trova posto un fondamentale contributo di Rifkin) è quella che, se Bach ne avesse avuto l'occasione, avrebbe sicuramente impiegato un organico corale massiccio per l'esecuzione dei suoi lavori corali. 


Prova di tale considerazione è la lettera autografa di Bach (1730) indirizzata al Concilio Municipale di Lipsia, «Entwurf», sull'andamento di una musica sacra-liturgica ben regolata.


[Continua]

martedì 26 agosto 2008

La Sesta Sinfonia di Mahler a Cremona (Myung Whun Chung e l’Orchestra Filarmonica della Scala


Myung Whun Chung alla testa dell’Orchestra Filarmonica della Scala e l’oboista Francesco Di Rosa hanno regalato a Cremona uno dei più memorabili appuntamenti con la grande musica sinfonica del Novecento storico tedesco.


Appartenente all’ultima stagione compositiva di Richard Strauss, edito appena un anno prima della morte del compositore (1948), il Concerto per oboe e piccola orchestra incarna uno stile assolutamente personale dal carattere inconfondibile in cui l’antico ed il moderno si trovano direttamente accostati in una sorta di neoclassicismo brulicante di motivi puntillisti sui quali si sono innestate perfettamente le funamboliche cadenze solistiche di Francesco Di Rosa. 


La Sesta Sinfonia, come diceva Gustav Mahler: «proporrà enigmi con i quali potrà cimentarsi soltanto una generazione che abbia accolto in se e assimilato le mie prime cinque sinfonie». Abbozzata nel 1903, finita nel 904 e poi strumentata nel 1905, la Sesta descrive la morte del titanico eroe, protagonista delle prime cinque Sinfonie. «La tendenza spirituale della Sesta è spiccatamente pessimistica, il suo tono fondamentale ha il sapore dell’amaro gusto della vita [...] Mahler la chiamò “Tragica”; le vette sinfoniche del finale, nella loro oscura violenza, sono simili alle enormi onde dell’oceano, che si abbattono sulla nave e la portano alla distruzione», queste sono le parole con cui il direttore d’orchestra Bruno Walter si esprimeva a proposito del lavoro del proprio maestro, amico e confidente: Gustav Mahler.


Il direttore coreano Myung Whun Chung ha catapultato il numerosissimo pubblico cremonese in un clima di rasserenante desolazione concertando con grande padronanza (ha diretto tutto a memoria) una composizione così tragica, prodotta paradossalmente nel periodo più felice vissuto dal compositore.


Una Sinfonia della durata di circa 80 minuti, durante i quali l’Orchestra Filarmonica della Scala ha tenuto con il fiato sospeso un uditorio generoso di applausi e grato di avere ascoltato, anche a Cremona,  un programma concertistico degno delle più prestigiose rassegne sinfoniche europee.